Lo sviluppo affettivo è un tema a cui sono stati dedicati numerosi scritti, da parte di clinici e ricercatori, e che stimola costantemente l’interesse di professionisti che a vario titolo si occupano di questo importante aspetto della nostra vita. Si assiste oggi a un aumento costante di persone interessate a capire sè stesse, gli altri e il funzionamento delle relazioni sociali, e di persone che considerano le proprie emozioni come un elemento di disturbo, una fonte di irrazionalità che potrebbe mettere in pericolo o in discussione il loro controllo e la loro stabilità, e che, per tali motivi, si rivolgono alla figura psicologo.
Lo studio dello sviluppo affettivo prende in considerazione il modo in cui l’individuo impara a mettersi in relazione con gli altri e acquisisce la capacità di comprendere ed esprimere affetti ed emozioni, il che sta alla base di una vita personale e interpersonale armoniosa e gratificante. Amare ed essere amati nella vita adulta è il risultato di successi, difficoltà e conseguenti compromessi attraverso i quali il nostro sviluppo è passato.
Attraverso tale percorso evolutivo arriviamo a consolidare nella vita adulta delle competenze centrali, se vogliamo, nel nostro modo di rapportarci agli altri e di mantenere “vive” le nostre relazioni interpersonali. Pensiamo all’empatia; in termini più “tecnici” essa è la capacità di provare gli stati cognitivi e affettivi di altre persone, immedesimandosi nelle loro vicende, comprendendone i bisogni ed esprimendo partecipazione. La definizione è lunga e articolata, fermiamoci a riflettere su questa prima parte. Grazie all’empatia noi siamo in grado di metterci nei panni dell’altro, e dunque di sentire le sue stesse emozioni e pensare i suoi stessi pensieri, e, perché no, sentire le sue stesse sensazioni corporee. È quello che capita quando stiamo vedendo, per esempio, la scena di un film violento che suscita in noi sensazioni di disgusto, nausea, paura, con segnali anche fisici e pensieri collegati a queste emozioni. Oppure, quando un nostro amico è triste per qualcosa che gli è capitato, e noi ci rattristiamo con lui perché ci siamo immedesimati in una situazione che noi stessi vivremmo come triste, spiacevole, difficile, lasciando che anche la nostra tristezza parta dalla pancia e arrivi agli occhi. Tutto ciò capita senza che noi viviamo personalmente quella situazione, ma attenzione! Intendo dire che noi non la viviamo da un punto di vista comportamentale, se così si può dire, cioè noi non stiamo facendo concretamente quello che fa il protagonista del film o il nostro amico, quella situazione non è capitata a noi, ciononostante la viviamo da un punto di vista emotivo, affettivo e somatico, perché siamo in sintonia con quella persona e perché proviamo le sue stesse emozioni. Dunque, siamo d’accordo nel dire che l’empatia è una forma di consapevolezza sociale per le esperienze cognitive e affettive altrui.
Ma la definizione di empatia non finisce qui, prende in considerazione anche quello che facciamo per l’altro. Di fatto, essere empatici non si esaurisce nel solo riconoscimento di ciò che l’altro prova, ma comporta anche il rispecchiamento dei suoi stati e l’espressione di emozioni e comportamenti congrui alla situazione. Se ci troviamo di fronte a una persona che piange perché, ad esempio, non ha superato un esame, noi riconosciamo il suo stato, la consoliamo, magari le offriamo un bicchiere d’acqua per tranquillizzarla e le diciamo parole di conforto. Proprio perché una persona può intraprendere qualunque azione reputi idonea a fornire aiuto e comprensione all’altro, l’empatia viene associata all’altruismo.
Ora ci si potrebbe chiedere da dove viene fuori l’empatia. Noi non nasciamo empatici, nei primi mesi di vita i bambini sono incapaci di provare vera empatia per un’altra persona; un bambino può iniziare a piangere quando sente piangere un altro bambino, ma questo avviene attraverso una specie di contagio e rappresenta una reazione globale e involontaria. Successivamente i sentimenti empatici che il bambino è in grado di esprimere diventano sempre più sofisticati, rendendolo competente nel rispecchiare le precise emozioni delle altre persone. Dunque nel riconoscere queste emozioni. Questa competenza contribuisce allo sviluppo e al funzionamento (comprendere, interpretare, immedesimarsi, reagire alla situazione) delle nostre capacità empatiche in età adulta.
Nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza, il riconoscimento delle emozioni si perfeziona progressivamente e interagisce in modo sempre più raffinato con il costrutto empatico. Tale processo, estremamente complesso, può incontrare delle difficoltà durante queste prime fasi della vita. Purtroppo questo contesto non permette di affrontare in modo esaustivo un tema così ampio e articolato, quale l’evoluzione delle competenze emotive e affettive. Concentrandoci sull’adolescenza, per ora basti pensare a essa come una fase di grande crescita ma al contempo di grossa vulnerabilità emotivo-affettiva, e alle difficoltà a cui va in contro l’adolescente (e i suoi genitori!), difficoltà a cui tutti noi siamo andati incontro. E si pensi, infine, alla resilienza, cioè alla capacità di resistere e affrontare le vicissitudini della crescita e del cambiamento, e a come tale capacità sia molto importante per quegli adolescenti (ma anche per i genitori!) il cui naturale percorso evolutivo abbia subito difficoltà, disturbi o arresti e che decidono di rivolgersi alla figura dello psicologo per essere aiutati a riprenderlo.